VIVERE SENZA OFFENDERSI CORSO LIBERO PER USARE BENE E EMOZIONI


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    Figli stranieri e saggi


    A volte i figli ci mostrano, da stranieri, come abitare il nostro spazio.
    Margherita, cinquenne, afferma "non puoi odiare qualcuno perchè è come volerlo in un altro mondo, ma tu sei nel mondo".. Continua...

    Madonna!




    Margherita, quattrenne, vede in un giardinetto una piccola grotta di cemento con una madonnina.

    E' affascinata "guarda!!!" mi dice indicandola.

    Io le spiego "quella stautina rappresenta la mamma di Gesù, la chiamano Maria, oppure Madonna".

    Al chè Margherita ride, si batte sulla fronte e mi dice "che ridere, si chiama come uno spavento!!!"

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    Cos'è che mi fa sopportare il formicolio del braccio se ci si è accoccolato il gatto?


    Sono sdraiata sul divano, il braccio schiacciato mi comincia a formicolare forte, anzi, fa proprio male. Però sto lì, immobile, attenta a non spostare il gatto che ci si è accoccolato sopra.

    Ora voglio osservare bene.
    Non basta dirmi che ho piacere che il gatto stia accoccolato lì.

    Voglio capire di che sostanza sia fatta la mia volontà di stare ferma per non spostare il gatto.
    Deve essere una sostanza grossa, perché il male è forte e questa lo controbilancia benissimo.

    Quando il crescendo del dolore raggiunge la sua soglia finalmente mi muovo. Il gatto mugola e si sposta. E io? Cosa c'era nell'istante prima che adesso non c'è più?
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    Punti di vista sconcertanti


    Ogni tanto mi capita di rimanere sbalestrata da una battuta di dialogo. Confusione e nausea come di vertigine. Riprendo equilibrio solo ridendo.

    Ecco un esempio: per l'ennesima volta il calorifero sgocciola, ma per caso e fortuna vedo dal ballatoio proprio l'idraulico arrivato a sistemare un guaio dal vicino e lo chiamo affinchè mi risistemi il calorifero che aveva già tentato di sistemare due giorni prima.
    Lui sale, ha in mano gli attrezzi, ma non sono quelli giusti, dice.
    "Non si preoccupi, torno, lei lo sa che sono una persona seria" e a tutta prova aggiunge "sono venuto qui almeno 15 volte, e lei lo sa".
    In questo caso quel che è implicito per me, e cioè che sia preferibile che venga una sola volta e a risolvere definitivamente il problema, non solo non lo è per lui, ma lui implica che la prova della sua serietà stia nell'essere tornato 15 volte.

    Un altro esempio. All'architetto l'ingenere contesta la progettazione della grondaia: è evidente un continuo stillicidio di acqua lungo tutto il colmo della grondaia che fa sgocciolare l'acqua dentro il balcone. Al che l'architetto replica "ma è perchè ha appena piovuto!". Io qui mi chiedo, con uno stupore divertito e incazzoso, ma cosa diavolo implica lui? Forse la grondaia non è fatta proprio per quando piove?

    Questa è bella: due avvocati si incontrano, una propone di intrapprendere un percorso di conciliazione, al che l'altro risponde "non penso che possiamo conciliare, abbiamo due posizioni diverse" Spiegargli che conciliare significa trovare un accordo fra posizioni diverse? Cosa intende lui per conciliazione?


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    Una storia di mediazione con il Coaching Emozionale


    Voglio raccontarvi una storia di mediazione risolta con il coaching emozionale così che possiate darvi un’idea di come funziona.
    E' un'esperienza fatta insieme a Maria Francesca Francese, un'amica che fa l'avvocato conciliatore

    Le cirostanze
    Otto donne, ciascuna rappresentante di una classe di una scuola materna, erano in contesa con un uomo, Mimmo, genitore di un alunno, che era stato eletto rappresentante dell'assemblea di tutti i genitori.
    A Mimmo erano stati affidati millesettecento euro all’inizio dell’anno scolastico. Mimmo avrebbe dovuto depositarli in un conto comune destinato a far fronte ai progetti deliberati per la scuola ma, una volta entrato in possesso di questi soldi, non li ha più restituiti.
    Il conflitto non è scoppiato subito in maniera trasparente. Più di una donna ha sospettato che i soldi non sarebbero tornati indietro e ha fatto qualche passo per ottenerne la restituzione ma in maniera indiretta e non esplicita. Per esempio è stato chiesto a Mimmo di convocare un'assemblea nella quale sarebbe emersa la mancanza di questo soldi, però senza chiedere direttamente se i soldi ci fossero oppure no, se li avesse depositati oppure no, se se li fosse intascati e spesi o se fossero ancora disponibili.
    Via via che i sospetti si diffondevano qualcuna ha provato ad aprire un dialogo con Mimmo, tipo "se hai bisogno di aiuto, parliamone." A questo genere di aperture Mimmo non ha saputo rispondere se non reiterando bugie e scuse poiché temeva le conseguenze del proprio gesto.
    La sequela delle comunicazioni vaghe e degli approcci equivoci ha continuato finché il caso non ci è stato presentato a distanza di qualche mese, nell’evidenza della mancanza del denaro affidato a Mimmo e nell’esasperazione di tutte le persone coinvolte.

    Primo incontro con il gruppo delle mamme
    Durante il primo incontro abbiamo conosciuto le mamme rappresentanti di classe. Sapevano di venire in mediazione, sapevano che si trattava di un percorso diverso da quello giudiziale, ma non sapevano che cosa ciò significasse nella pratica, tant'è che sono rimaste spiazzate dalla nostra impostazione.
    Infatti abbiamo subito impedito che si parlasse di ragioni e di torti (dando per scontato che appropriarsi di soldi altrui non fosse lecito) e abbiamo indirizzato la nostra attenzione esclusivamente agli obiettivi da raggiungere.
    Questo è spiazzante per chi si aspetta di ricevere “solidarietà contro”, collusione, conferma nella propria posizione di superiorità morale, di giusto e di vittima, e invece si trova ad essere richiamato alla propria responsabilità, a definire ciò che davvero vuole ottenere e ad attivare i comportamenti utili per ottenerlo.

    Individuare gli obiettivi è meno banale di quanto sembri.
    Inizialmente sembrava che l’unico obiettivo del gruppo delle mamme fosse recuperare i soldi e punire l’offensivo colpevole: "Non si può fargliela passare liscia" "Ci ha imbrogliate" "Ci sentiamo prese in giro" "Doveva pensarci prima" "Dobbiamo denunciarlo" "Non è un problema mio se va nei guai" "Ci ha detto un sacco di bugie."
    La carica emotiva era forte, e espressa inizialmente solo attraverso la rabbia.

    Avendo in mente come unico obiettivo quello di recuperare i soldi, spesso le rappresentanti hanno sconfinato gravemente pensando di coinvolgere la moglie di Mimmo: "Lei lavora, deve aiutare il marito" "Dobbiamo parlare con lei".
    Così il nostro primo intervento ha dovuto immediatamente ridefinire i confini del conflitto.
    Questa è una operazione molto importante perché molto spesso, se non lo si fa, il conflitto si allarga a coinvolgere persone che non sono interessate a raggiungere gli stessi obiettivi e si perpetua nell’insoddisfazione generale.
    Per definire i confini bisogna andare alla caccia delle responsabilità che definiscono i limiti dell'identità del sistema.
    In mediazione l'obiettivo è di dare soddisfazione a tutti gli interessi delle parti in gioco individuando un contesto condiviso. E' importante coinvolgere tutti i portatori di interessi altrimenti qualcuno rimane insoddisfatto. Ed è altrettanto importante coinvolgere esclusivamente i portatori di interesse in gioco altrimenti il conflitto si allarga.
    Non è stato difficile riconoscere che la moglie era estranea al sistema in conflitto. Lei infatti non aveva preso alcun impegno verso le rappresentanti della scuola e le sue eventuali responsabilità nei confronti del marito riguardano la sua relazione con lui, che lascia estranee tutte le altre persone.

    Siccome il primo (e inizialmente l’unico) obiettivo emerso, il recupero dei soldi, era espresso con grande violenza emotiva, ci siamo subito dedicate alla quantificazione del danno in modo che le emozioni e i significati coinvolti fossero commisurati al danno effettivo e non ai sistemi simbolici più o meno esplicitamente coinvolti.
    Nello specifico si trattava di milleseicentonovanta euro su una popolazione di 110 bambini, perciò all'incirca 15 euro a famiglia.
    Questo ha permesso alle rappresentanti di demistificare la propria interpretazione del fatto, passando da "come si fa a rubare ai bambini!" (dove è il rubare e i bambini catturano l'attenzione e mobilitano principi etici ed emozioni forti) a "beh, in fondo mancano 15 euro a famiglia" il che muove un po' di incazzo e di frustrazione, ma sdrammatizzata.
    E’ così apparso chiaro a tutti che le emozioni coinvolte erano sproporzionate al danno effettivo che ogni famiglia avrebbe dovuto sopportare.

    “Ma allora, se il danno non è così enorme, come mai mi sento tanto arrabbiata?”. Questa domanda ha permesso di guidare le mamme verso l’individuazione di obiettivi meno ovvi, alla ricerca di ciò che davvero desideravano.
    Così sono emersi come ulteriori obiettivi l’impedire a Mimmo di rifare quello che aveva già fatto, il non fargliela passare liscia, e rispondere alla domanda "come presentarsi agli altri genitori senza perdere la faccia?".
    Le mamme rappresentanti erano infatti molto preoccupate della figura che avrebbero fatto di fronte agli altri genitori, temevano di essere considerate colpevoli dell’ammanco. La rabbia e l’aggressività che esprimevano nel desiderio di denuncia e di vendetta nascondeva alla loro consapevolezza proprio questo timore.

    Abbiamo accolto questi nuovi obiettivi e contemporaneamente abbiamo chiesto che fossero raggiunti all'interno di un sistema nel quale si riconosceva la propria totale responsabilità.
    Quale responsabilità hanno i rappresentanti di classe nel fatto che Mimmo abbia trattenuto il denaro? Inizialmente questa chiamata alla responsabilità è stata rifiutata. "Anche mio marito è disoccupato, ma non ha mai rubato", "Abbiamo sempre affidato i soldi in questo modo, non potevamo sapere cosa sarebbe successo", "Non li ho mica presi io i soldi." Tutte frasi che evidenziano la confusione concettuale tra responsabilità e colpa.
    Abbiamo allora fatto in modo che si comprendesse la differenza tra responsabilità e colpa, senza troppa teoria, con un esempio: cosa avremmo pensato se un nostro figlio avesse lasciato incustodita la macchina fotografica al bar "lasciandosela" rubare? Ovviamente non avremmo potuto considerare il piccolo colpevole della sottrazione, ma gli avremmo dato dell’ingenuo e dell’irresponsabile dicendogli che avrebbe dovuto ben sapere che non è prudente lasciare una macchina fotografica incustodita in un bar.

    Le mamme si sono trovate molto scomode. Credevano di partecipare un contesto in cui si sarebbero sentite dar ragione, in cui avrebbero trovato sostegno emotivo e pratico per condurre una battaglia vittoriosa, ma si sono trovate in un contesto che le invitava a riconoscere pienamente la propria responsabilità quando ancora la confondevano con la colpa.

    Le abbiamo lasciate dopo il primo incontro con il compito di ridefinire la prassi per la custodia del denaro raccolto, in modo da poterla sottoporre all'assemblea generale dei genitori così da recuperare con una proposta sostanziale la propria funzione responsabile di rappresentanti di classe.


    Secondo incontro con il gruppo delle mamme

    Al secondo incontro il gruppo delle mamme si è presentato con il compito ben eseguito: la prassi di consegna e custodia del denaro era stata ridefinita in maniera consensuale e non eccessivamente farraginosa.

    Questo primo lavoro ha ottenuto diversi vantaggi:
    - ha permesso di reindirizzare l'attenzione dalla punizione o vendetta al raggiungimento dei loro obiettivi
    - ha permesso di abbandonare l'illusione che punizione significasse soluzione del problema
    - ha aiutato a riprendersi la responsabilità della propria funzione di rappresentanti

    Dopo aver ribadito la differenza tra responsabilità e colpa, dopo aver ridefinito i confini del sistema da considerare e dopo aver dato risposta all'obiettivo di presentarsi dignitosamente all’assemblea generale dei genitori, ci siamo disposti al successivo incontro, quello che avrebbe coinvolto in mediazione anche Mimmo.

    Incontro con Mimmo
    Per preparare la mediazione in cui sarebbe stato coinvolto con le mamme, abbiamo incontrato Mimmo separatamente. Lo scopo era di conoscere i suoi interessi e la sua realtà, ripuliti dalle bugie e dalle illusioni.
    Da parte nostra gli abbiamo illustrato a grandi linee lo scopo e il metodo della mediazione, non gli abbiamo nascosto il risentimento delle mamme, e abbiamo chiesto il suo impegno a mantenersi nella verità pena la nostra incapacità di aiutarlo.

    Mimmo è stato posto da noi nelle condizioni di dover scegliere in un attimo se rischiare la verità o se mantenersi incastrato nella sua rete di bugie.
    In qualche modo è riuscito ad abbandonare l'illusione che le bugie potessero proteggerlo e ad aver fiducia che nella verità i suoi interessi avrebbero potuto trovare maggiore soddisfazione.

    Mimmo ha potuto finalmente ammettere di aver avuto paura e pertanto di aver raccontato molte bugie. Ha riconosciuto che ormai le bugie erano diventate per lui una gabbia nella quale rimaneva incastrato, alimentando illusioni di soluzioni, prima ancora di riuscire ad incastrare gli altri.
    Infatti, a furia di raccontare storie, Mimmo poteva quasi credere che il fratello gli avrebbe davvero prestato il denaro necessario, che l'azienda gli avrebbe pagato gli arretrati, che la settimana prossima avrebbe potuto restituire almeno 100 euro…

    Mimmo è disoccupato da più di un anno, ha 40 anni e due figli piccoli. Vive nel contesto di crisi economica e del lavoro che siamo invitati ad ignorare dalla tirannia dell'ottimismo di regime e a causa della colpevolizzazione dello sfigato che permette di sentirci superiori, fino a quando non riconosciamo noi stessi come sfigati.
    Il riconsiderare questa condizione di difficoltà non ci mette nella condizione di giustificare Mimmo (perché noi non parliamo di torti e ragioni) ma ci mette nella condizione di riconoscere la dinamica di quanto accaduto.
    Mimmo, per esempio, ha svolto con successo un lavoro di una decina di giorni ma non è stato riconfermato nell'incarico neppure quando ha chiesto di essere pagato come un giovane apprendista, proprio a causa del fatto che ha 40 anni e che avrebbe potuto fare ricorso contro il datore di lavoro che ha il permesso legale di sfruttare un giovane ma non di sfruttare un quarantenne.
    Il riconoscimento di questo contesto sociale non è qualcosa di cui il sistema in mediazione possa prendersi direttamente carico, ma è una realtà che non può ignorare.
    Anche qui la nostra attenzione era sul filo del rasoio perché bisognava stare attenti a non confondere la descrizione della realtà come giustificazione.

    Primo incontro in plenaria
    L'incontro successivo ha visto tutti insieme: Mimmo era agitatissimo, temendo la denuncia. Neppure per le accusatrici era facile affrontare la realtà. Le rappresentanti erano emozionate in presenza della persona contro cui sapevano puntare il dito nei propri pensieri di rabbia e vendetta. Si rendevano conto che è facile ipotizzare di punire qualcuno, ma che è difficile desiderare di farlo se lo devi fare tu, lì, in quel momento.

    Scopo di questa sessione congiunta era definire una realtà condivisa. Si trattava di comporre il puzzle di quanto accaduto attraverso l'esposizione e la condivisione di tutti i punti di vista.
    Una rappresentante ha raccontato nei dettagli la raccolta e l'affidamento del denaro sino alla sua sparizione, e Mimmo ha continuato raccontando il proprio contesto, i propri pensieri, le proprie intenzioni ecc.
    Ci sono state molto domande, spesso dirette e precise, fatte a Mimmo da parte di alcune mamme del gruppo.
    Per le mamme è stato emozionante esprimere senza reticenze le proprie emozioni in forma di domanda. Per Mimmo è stato semplice e scioccante rispondere la verità.
    Finalmente la frustrazione delle rappresentanti ha potuto essere espressa liberamente: il loro senso di tradimento non solo per la mancanza dei soldi, ma il senso di tradimento per una relazione mancata "Io lo incontravo ai giardinetti con mio figlio."
    Finalmente, oltre alla rabbia, si stavano esprimendo anche la tristezza del tradimento, il senso di abbandono, la paura dell’isolamento, lo scoramento per la mancanza di significati condivisi, …
    Incontrarsi è commuovente.

    L'importanza della condivisione della verità è straordinaria. Permette di capire di che cosa effettivamente si stia parlando e di ribadire i confini del sistema coinvolto. Condividere la descrizione del reale mette ciascuno nella possibilità di demistificare e nello stesso tempo di poter esprimere le proprie emozioni e chiedere chiarimenti sulle intenzioni altrui.
    Questo di chiedere chiarimenti sulle intenzioni è un altro punto delicato perché se da una parte ti permette di trovare accordo in un principio di livello logico superiore, dall'altro rischia di diventare moralistico, educativo e di trasformare il tutto in un processo alle intenzioni.
    "Ma quando ti sei fatto eleggere rappresentante è perché volevi già rubare?" "Che cosa ci hai fatto con questi soldi?".
    Chiedere per che cosa siano stati utilizzati i soldi è molto probabilmente uno sconfinamento moralistico che rischia di distrarre dagli obiettivi di mediazione.
    Non è utile, infatti, che le mamme si sostituiscano a Mimmo nel giudicare la sensatezza delle spese da lui sostenute.
    Pertanto il nostro intervento è stato condotto anche qui sul filo del rasoio perché potevamo permettere questa indagine sulle intenzioni solo nella misura in cui si condividevano dei valori, ma dovevamo assolutamente impedirlo quando diventava un processo alle intenzioni.
    Che queste domande potessero essere espresse esplicitamente e potessero ricevere risposta è stato utile a riconoscere le emozioni legate alla lettura del pensiero e contemporaneamente pericoloso perché permetteva di ergersi a giudici in ambiti non propri.

    Ci siamo lasciati dopo questo incontro con la soddisfazione di condividere una realtà pienamente espressa, depurati della disintegrazione delle bugie, dalla sgradevolezza del sospetto ("Sono io che penso male…") e dalla confusione della vittima che si sente colpevole.

    Tutto questo ha permesso che emergesse con chiarezza un obiettivo sistemico fondamentale fin’ora rimasto inavvertito e inespresso: fare in modo che le relazioni fra tutti (compresi i genitori rappresentati) tornassero sane e vivibili.

    Ci saremmo rivisti al successivo incontro con l'obiettivo di trovare le soluzioni per risarcire il denaro, risarcire la faccia di Mimmo, e reimpostare in maniera sana il sistema di relazioni con Mimmo e con gli altri genitori.


    Secondo incontro in plenaria

    Le più ovvie soluzioni di risarcimento si sono rivelate impraticabili.
    - "Ma non puoi venderti la macchina?" -> “l’auto che utilizzo non è mia e non ho neppure i soldi necessari per la benzina”
    - "Chiedi a tuo padre e a tua madre" -> "Mio padre non c'è più, mia madre la mantengo io e mio fratello è disoccupato anche lui."
    - "Dovevi pensarci prima" -> "Sì, avrei dovuto pensarci prima."

    Questo primo passaggio di domande ovvie ha permesso di riprendere contatto con la realtà presente invece che con quella immaginata.
    Le rappresentanti di classe si sono rese conto che la loro immagine della realtà era stata impoverita da eccessive semplificazioni.

    Si è proceduto nel tentativo non di chiedere risarcimento, ma di creare un contesto che risarcisse. Una differenza enorme, perché creare un contesto che risarcisce mobilita la nostra responsabilità ed evidenzia la circolarità: la restituzione del denaro sarebbe proceduta di pari passo con il recupero della faccia di Mimmo, il quale, recuperando la faccia, sarebbe stato maggiormente in grado di rifondere il denaro.
    Per ragioni burocratiche la scuola non avrebbe potuto accettare nessuna prestazione di lavoro svolta da Mimmo a compensazione del debito. Ma la rete dei genitori, se fosse stata capace di assumersene la responsabilità, avrebbe potuto creare numerose piccole occasioni di lavoro che avrebbero permesso a Mimmo di restituire i soldi. Si è stabilito che Mimmo non avrebbe ricevuto il compenso ma che il corrispettivo in denaro sarebbe andato direttamente a risarcire il debito.
    Mimmo si è dichiarato disponibile per piccoli lavoretti (imbianchino, facchinaggio, lavori di fatica e quant'altro sarebbe potuto emergere, purché sentisse di averne la competenza) ed è subito apparso chiaro come la possibilità di restituzione del denaro fosse strettamente connessa e dipendente dalla capacità del gruppo genitori di creare contesti per consentire via via a Mimmo di rientrare nel consesso comunitario riguadagnandosi la faccia.
    In questo modo, senza nulla togliere alla responsabilità di Mimmo, i genitori ritrovavano la propria piena responsabilità, la propria capacità di rispondere alla situazione.

    Ora le rappresentanti sono in una situazione non semplicissima. Hanno imparato a distinguere la responsabilità dalla colpa, ma a volte ricadono in confusione.
    Temono le obiezioni degli altri genitori proprio perché, non avendo pienamente integrato questa distinzione, si trovano nella difficoltà di testimoniarla congruamente agli altri genitori.

    Lunedì prossimo ci sarà l'assemblea con gli altri genitori. Mimmo non ci sarà. Si era dichiarato disponibile ad esserci per assumersi la propria piena responsabilità in modo da sgravare le rappresentanti che gli avevano affidato i soldi. Ma si è scelto che lui non compaia ora, per scongiurare fenomeni di gogna, e che verrà dichiarata la sua disponibilità ad essere presente in futuro nel caso glielo chiedessero.

    Le rappresentanti si presenteranno agli altri genitori così:
    1. racconteranno l'accaduto in modo che ciascuno sappia ufficialmente quel che adesso circola per filama, cioè che i 1700 euro raccolti per i progetti sono stati sottratti.
    2. Illustreranno il sistema ideato per evitare che questo possa verificarsi in futuro, con ciò prendendosi la responsabilità della propria funzione di rappresentanti.
    3. racconteranno l'esperienza della mediazione, l'uscita dall'illusione punizione uguale soluzione, e l'incontro con la realtà demistificata, gli obiettivi da raggiungere e il progetto di creazione del contesto risarcente.

    Saranno capaci di non cadere nella trappola delle giustificazione e del torto?
    Saranno capaci di mantenersi attente all'obiettivo invece che farsi incastrare nella rabbia che permette loro di sentirsi superiori e giusti?
    Crediamo di sì, che saranno capaci perché è diventato chiaro a tutti che ci sono due direzioni che portano a circolarità opposte.
    Una crea un circolo vizioso, sostenuto dalla rabbia (che nasconde la propria responsabilità) incanalata dalla ricerca del colpevole come se fosse una soluzione, una rabbia che si alimenta dell'idea "televisiva" della denuncia e che porta alla disgregazione del tessuto sociale del quartiere. Questo circolo vizioso ha come unico vantaggio, perverso e costosissimo, di sentirsi offesi, giusti, superiori, giudici.
    Il secondo circolo che si vuole virtuoso ha l'obiettivo di prendersi al 100% le proprie responsabilità, che non significa toglierne ad altri. Si tratta di non farsi distrarre dal distribuire torti e ragioni, ma di mantenere l'attenzione sugli obiettivi.
    Questa responsabilità si è espressa nell'elaborazione di una nuova prassi, nella condivisione della realtà fatta con Mimmo e, soprattutto, nella condivisione insieme a tutti i genitori dei significati che si sono sentiti traditi e che si vogliono invece preservare.
    L'obiettivo che tutti si rendano conto che il percorso che permetterà di recuperare i soldi è lo stesso percorso che permette a tutti di recuperare una faccia con cui incontrarsi attraverso la testimonianza dei valori condivisi anche, e soprattutto, rispetto ai bambini ai quali non si vuole mostrare una battaglia di ragioni contrapposte, ma percorsi di pace.



    Emma Rosenberg Colorni, da anni si occupa di coaching emozionale per la soluzione dei problemi e dei conflitti come consulente nelle organizzazioni e per i privati. Potete conoscere il suo lavoro visitando il sito www.emmarc.it

    Maria Francesca Francese (m.francesca@gmail.com) avvocato e conciliatore accreditato presso la camera di commercio di Trieste, responsabile di uno Sportello per la conciliazione delle controversie a Milano.


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    Emozioni e competenza professionale


    EMOTIONAL MATURITY
    FATTORE DETERMINANTE PER IL SUCCESSO PROGETTUALE

    Di Emma Rosenberg Colorni e Matteo Coscia

    Recenti studi sull’andamento dei progetti dimostrano come la maturità emotiva delle persone, del team e dell’organizzazione che li circonda sia un fattore determinante al successo dei progetti.
    Essere in grado di utilizzare le emozioni è una competenza irrinunciabile, per i Project Manager e per tutti gli Executive coinvolti nel richiedere, selezionare ed eseguire le iniziative.

    Il Chaos® Report

    Nel 2006 il Chaos® Report edito dallo Standish Group® evidenziava come fattori primari del successo dei progetti nell’ordine:

    a) coinvolgimento degli utilizzatori,
    b) coinvolgimento del top management,
    c) visione chiara dei risultati da ottenere e
    d) pianificazione appropriata.

    Due anni dopo, l’edizione più recente dello studio riporta le prime tre posizioni inalterate mentre alla quarta posizione è comparsa “maturità emotiva”, a precedere temi più tradizionali come pianificazione appropriata o conoscenza metodologica del project management.

    Che cosa significa maturità emotiva?

    Mentre siamo ormai abituati ad avere strumenti per guidarci nella pianificazione ed a considerare apprendibile la metodologia di project management, non è ancora ovvio a tutti che anche le competenze emozionali possono essere imparate attraverso un percorso codificato e che di fatto anch’esse sono parte indispensabile della professionalità necessaria a gestire un progetto.
    Maturità emotiva significa saper utilizzare le emozioni per comunicare meglio invece che tentare di soffocarle, negarle, controllarle o gestirle.
    Le emozioni infatti sono portatrici di informazioni preziosissime: usarle significa essere in grado di riconoscere e comunicare i messaggi che ci recano. Gestire o controllare le emozioni al contrario comporta la perdita di tali informazioni.
    Fino a qualche tempo fa si riteneva che le emozioni costituissero un disturbo alla coscienza, alla possibilità di ragionare efficacemente e di fare scelte valide.
    Da una quindicina d’anni, però, l’emozione è riconosciuta come una forma di computazione intelligente che emerge da un insieme di presupposti e da un sistema di regole relazionali.
    Siccome i nostri presupposti sono stati quasi sempre assunti inconsapevolmente, e siccome non abbiamo passato al vaglio le regole relazionali che dirigono la nostra attenzione, quasi sempre sperimentiamo le emozioni come qualcosa che ci succede, e non come un ambito in cui possiamo esercitare la nostra respons-abilità (abilità a rispondere).

    Responsabilità: potere e libertà

    Per recuperare responsabilità, che vuol dire anche potere e libertà, possiamo dunque studiare come funziona l’emozione riconoscendo i presupposti su cui si fonda ed accorgendoci del modo con cui dirigiamo automaticamente la nostra attenzione nel pensare e nell’agire.
    Usare questa competenza permette di negoziare, di condividere la realtà, di accordarsi sul rapporto fra mezzi e scopi, di concentrare pensieri e azioni sul fine desiderato, di risolvere creativamente i conflitti esistenti evitando di crearne di nuovi.
    In definitiva permette di raggiungere efficacemente i propri obiettivi e dunque di vivere meglio.

    Il 68% dei progetti fallisce per problemi comunicativi o metodologici

    Il Chaos® Report stima inoltre che nel 2008 il 68% dei progetti soccombe a problemi riconducibili in gran parte a lacune comunicative o metodologiche.
    La maggior parte di noi ha la sensazione che una grande porzione della giornata lavorativa venga spesa in relazioni improduttive, a difendere posizioni di potere o la propria immagine.
    Riconoscendo queste dinamiche ci si rende conto che, per quanto grande e netta possa essere questa sensazione, l’entità dello spreco rimane molto sottovalutata.

    La stessa comunicazione aziendale consiste di numerosi circoli viziosi legati all’offendersi: non solo la gran parte delle chiacchiere, ma anche le procedure, i documenti, intere strutture, riunioni e altri riti, sono spesso realizzati intorno a meccanismi di offesa creando l’impressione, spesso condivisa, di essere all’interno di un ‘teatrino’.
    Conoscendo i meccanismi che generano l’offesa, e tenendoli presente come modello, diventa possibile riconoscerli e imparare ad utilizzare ogni altra emozione. Saper riconoscere l’offesa è quindi una discriminante essenziale per il successo dei progetti, e una delle strade più fruttuose per il loro miglioramento.

    Come utilizzare le emozioni nei progetti?

    Ogni emozione ci informa su come stiamo osservando una determinata situazione, ovvero di:
    a) quale sia il nostro punto di vista
    b) quali siano i significati che attribuiamo inconsapevolmente a ciò che vediamo
    c) quale sia la dinamica interpretativa sia interna a noi che sociale

    Quando non si è in grado di esplicitare negoziare e sottoporre a verifica, i tre punti precedenti si verificano comunicazioni improduttive o peggio distruttive.
    Questo è vero in ogni contesto, ma è addirittura amplificato per chi si trova ad operare in ambito progettuale all’interno di un’organizzazione gerarchica: le tradizionali strutture comunicative basate ‘sul bastone e sulla carota’ tipiche di organizzazioni gerarchiche perdono di significato per il Project Manager che, per la maggior parte dei progetti, non possiede né l’uno né l’altra.
    Infatti il gruppo di progetto, per garantirsi il successo, deve abbandonare la struttura gerarchica e assumere una configurazione agile ‘ad ameba’, in modo da essere in grado di far fronte all’imprevedibilità del contesto e di dare risposte essenziali e veloci.
    L’organizzazione necessita quindi di nuove modalità e nuove competenze di comunicazione, basate sul riconoscimento e sulla valorizzazione delle emozioni, specie nel mondo progettuale.

    Un percorso cognitivo su 3 dimensioni

    E’ utile perciò seguire un percorso ben sperimentato su tre livelli:
    - Riconoscere cosa sia e come funzioni un’emozione
    - Imparare a risalire da questa ai suoi presupposti
    - Imparare a negoziare i presupposti per condividere la realtà e le modalità e i mezzi del cambiamento.

    Grazie all’approfondimento bibliografico e utilizzando programmi di formazione o di Coaching Emozionale, il project manager può acquisire le basi delle competenze emozionali.
    Tali competenze si potranno in seguito approfondire ed esercitate in autonomia.

    Approfondimenti e bibliografia
    Chi volesse approfondire queste tematiche può fare riferimento alle opere di Antonio Damasio per la neurologia delle emozioni, di Bateson per la loro funzione epistemologica e di Maturana e Varela per la dinamica autopoietica della cognizione. Krishnamurti ci regala un esempio di umano che ha imparato ad utilizzare benissimo le emozioni, ma i libri che raccolgono i suoi discorsi non hanno una struttura immediatamente ripercorribile. Per un approccio pratico qualche indicazione c'è in Marianella Sclavi "Arte di ascoltare e mondi possibili", molto pratico è anche Marshal Rosenberg, che scrive di Comunicazione NonViolenta.
    In “Lavorare senza offendersi” dell’autrice Emma Rosenberg Colorni si può trovare la descrizione di una strada ripercorribile, e dunque è questo il libro consigliato per introdursi allo studio della forma delle emozioni e del loro utilizzo per comunicare bene.
    Continua...

    E tu ce l'hai lo schelettro?


    Margherita, cinquenne, chiede a Luca, seienne "tu ce l'hai lo schellettro?".
    E luca risponde "e sì, se no come faccio a muorire?"
    Continua...

    LA NATURA DEL TEMPO

    Humberto Maturana 27 Nov 1995

    LA NATURA DEL TEMPO

    Humberto Maturana 27 Nov 1995

     

     

     

    * La domanda è “quali distinzioni facciamo o evochiamo quando parliamo di tempo?”.

    Tutto ciò di cui noi esseri umani parliamo sono relazioni che emergono nel nostro operare nel linguaggio come ambito chiuso di coordinamenti di comportamenti consensuali e ricorsivi (diversi livelli: coordinazioni di coordinazioni di coordinazioni…: comportamento linguistico, linguaggio, oggetti, concetti…).

    La vita, il vivere, si svolge come flusso di processi.

    Passato, presente e futuro sono idee che noi esseri umani inventiamo quando spieghiamo i nostri accadimenti ->il tempo è inventato come sfondo in cui passato, presente e futuro possano svolgersi.

    Il linguaggiare è un modo di fluire nel vivere insieme, facendo cose insieme, in coordinamenti di comportamento consensuali e ricorsivi.

    Acquisiamo la nostra struttura momento dopo momento conformemente al corso del nostro linguaggiare, e linguaggiamo momento dopo momento conformemente alla nostra struttura in quel momento.

    Noi esseri umani esistiamo nel linguaggio, e quando linguaggiamo non possiamo dire nulla al di fuori del linguaggio.

    Noi esseri umani esistiamo/emergiamo dentro il linguaggio, nella sua dinamica chiusa di coordinamenti di coordinamenti consensuali ricorsivi.

    Così tutto ciò che diciamo o possiamo dire - tutto ciò che noi possiamo distinguere quando facciamo ciò che facciamo come osservatori (come esseri umani linguaggianti) - ha luogo come un'operazione all’interno di coordinamenti consensuali di comportamenti senza fare alcun riferimento a qualsiasi cosa al di fuori del nostro linguaggiare.

    Gli oggetti nascono con il linguaggio come consensuali coordinamenti di comportamenti che coordinano i comportamenti. Le “proprietà” degli oggetti emergono come differenti generi di coordinamenti.

    Come ai diversi tipi di oggetti corrispondono diverse operazioni di coordinamenti di comportamenti, gli oggetti astratti (idee, concetti, nozioni) portano i coordinamenti di comportamenti nel dominio di coordinamenti consensuali dei comportamenti di cui essi sono astrazioni.

     

    Nella nostra cultura viviamo come se il linguaggio fosse un sistema simbolico per riferirsi a entità di diversi tipo (es: tempo, materia, energia… realtà) che esistono indipendentemente da nostro coordinarci, e trattiamo anche noi stessi come se esistessimo al di fuori del linguaggio, come fossimo entità indipendenti che utilizzano il linguaggio. .

    Quello che immaginiamo non è indipendente dal nostro linguaggiare, non possiamo immaginare una realtà indipendente fuori dal linguaggiare.

    La nozione di realtà (indipendente, esterna) è un'assunzione esplicativa che noi umani abbiamo inventato per spiegare che cosa distinguiamo come nostre esperienze negli accadimenti della nostra vita.

    Ciò che facciamo quando spieghiamo le nostre esperienze è utilizzare le nostre esperienze per spiegare le nostre esperienze..

    Non sperimentiamo le cose come caratteristiche di un mondo indipendente, ma sperimentiamo quello che distinguiamo come accadente a noi mentre operiamo nel linguaggio.

    La nozione di “realtà indipendente” non ha alcun senso al di fuori del linguaggio, d’altra parte non avere accesso a qualcosa che potrebbe correttamente essere chiamato una realtà indipendente non è una limitazione per la nostra vita o per il nostro fare poiché nulla di ciò che facciamo nel flusso del coordinamento consensuale di comportamenti in cui esistiamo richiede il concetto o la supposizione che esista una realtà indipendente.

     Conoscere” non può riferirsi ad una realtà indipendente dal momento che è qualcosa che noi come esseri linguaggianti non possiamo fare.

    Tutte le nostre spiegazioni hanno luogo in un dominio chiuso: la realtà e gli altri concetti esplicativi sono assunzioni a priori che non hanno luogo fuori dagli ambiti esplicativi in cui esistiamo come esseri parlanti.

    La conoscenza è una relazione interpersonale, una maniera di vivere insieme, nell’ambito di coordinamenti consensuali di coordinamenti consensuali di comportamenti.

    Attribuiamo conoscenza quando consideriamo adeguato il comportamento in un ambito specifico.

    Quali caratteristiche di coerenza delle nostre esperienze connotiamo o astraiamo quanto utilizziamo la parola tempo?

    L’esperienza è la nostra condizione di partenza sia per porre la domanda sia per rispondere, dunque: cosa facciamo quando utilizziamo la parola tempo?

    La parola tempo connota un’astrazione dell’accadere di processi in sequenze come noi li distinguiamo nelle coerenze delle nostre esperienze.

    Al momento dell’astrazione della relazione sequenziale che da origine a quella distinzione che chiamiamo tempo, il tempo emerge nell’ esperienza dell’osservatore con direzionalità ed irreversibilità come se avesse indipendenza da ciò che l’osservatore fa (poiché una volta che il tempo è emerso può essere usato dall’osservatore (essere linguaggiante) nella sua riflessione sulle regolarità delle sue esperienze proprio perché emerge come un’astrazione delle regolarità delle sue esperienze.

    La fisica non è un dominio primario di esistenza, ma è un dominio particolare di spiegazioni di un particolare dominio di coerenze esperienziali di un osservatore.

    Le nozioni teoriche sono astrazioni delle coerenze esperenziali di un osservatore in certi domini. Le teorie sono operativamente valide solo nel dominio in cui esse si applicano come astrazioni.

    Se trattiamo il tempo come entità esistente indipendentemente da ciò che facciamo in quanto osservatori generiamo conflitti concettuali e operativi.

    Ci sono tante forme di tempo quante sono le forme di astrazione delle regolarità delle esperienze di processi e sequenze di processi. Così noi parliamo di tempo veloce e lento, di passare il tempo, di perdere tempo, di avere o non avere tempo, di coincidenza nel tempo, di reti di tempo, di simultaneità. Ogni dominio ha una sua propria dinamica temporale così come ha una sua propria dinamica processuale.

    L’osservatore non è un’entità fisica, l’osservatore è una maniera di operare degli esseri umani nel linguaggio. E’ attraverso le operazioni dell’osservatore che emergono tutti i domini cognitivi, compreso il dominio dell’osservazione.

    L’osservatore stesso emerge come entità di cui noi osservatori possiamo parlare attraverso l’operazione dell’osservatore che costituisce il fondamento di tutto quello che noi umani facciamo.

    L’esperienza emerge spontaneamente letteralmente dal nulla, oppure, se vogliamo, dal caos, dal dominio sul quale non possiamo dire nulla che non nasca dalle coerenze della nostra esperienza. Ma le nostre esperienze non sono disordinate, esse nascono coerentemente in quanto nascono in noi dal niente.


    La grande tentazione è di trasformare in principi esplicativi le astrazioni delle coerenze che distinguiamo con nozioni come realtà, esistenza, ragione, spazio, coscienza, tempo.


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    Settenani






    Luca, 4enne: "Guarda, un settenano!"

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    Quanto siamo liberi?


    E’ bello pensarsi liberi, finiamo per credere di esserlo.

    Ma capitano alcune esperienze in cui ci accorgiamo con stupore, oltre che con orrore, di quanto siamo complici della nostra, e dell’altrui, prigionia.

    Qui di seguito sono raccontati due momenti di stupore ed orrore in cui chi scrive si accorge di aver assunto automaticamente i presuposti dell’appartheid.*

    "Un giorno, andando per la città, vidi una donna bianca che, seduta sulla cunetta di scolo accanto al marciapiede, succhiava delle lische di pesce. Era giovane e piuttosto attraente, ma evidentemente povera e senza casa. Naturalmente sapevo che esistevano bianchi poveri, bianchi la cui miseria non aveva niente da invidiare a quella dei neri, ma capitava raramente di vederli.
    Ero abituato a vedere i mendicanti neri per le strade, e vederne uno bianco mi colpì. Mentre di solito ai mendicanti neri non facevo l’elemosina, provai l’impulso di dare a quella donna del denaro.
    In quell’istante mi avvidi di quali scherzi giocava alla gente l’appartheid, rendendole insensibili ai travagli quotidiani dei neri, pur lasciandole capaci di commuoversi alla sofferenza dei bianchi. In Sudafrica, essere poveri e neri era normale, essere poveri e bianchi una tragedia." (pag 186).

    "Facemmo tappa brevemente a Kartoum dove ci trasferimmo su un aereo delle linee etiopiche che ci avrebbe portati ad Adis. Lì feci una esperienza alquanto strana: mentre salivo a bordo mi accorsi che il pilota era un nero, e per un attimo fui preso dal panico. Come poteva un nero pilotare un aereo? Ma subito mi accorsi del tranello: anche io ricadevo negli schemi dell’appartheid, secondo i quali gli africani erano inferiori e pilotare un aereo era un mestiere da bianchi."(pag 282).

    (*Autobiografia di Nelson Mandela, edizione economica Feltrinelli, 1997)
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    Uscire di casa senza piangere


    Giacomo, quattrenne, chiede piangendo alla sua mamma di non uscire, di non lasciarlo a casa per andare a lavorare. ".

    Elisa, la sua mamma, gli risponde tentando di spiegargli che deve andare al lavoro, ma Giacomo non può capire, così Elisa gli dice che se non va a lavorare non hanno i soldi per comprare da mangiare, e Giacomo, saggio, le risponde "ma io non ho fame!"
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    La scuola e il manicomio


    Cosa distingue la scuola dal manicomio?

    Entrambi sono istituzioni totali, entrambi obbligatori, e entrambi si prendono il monopolio di responsabilità che dovrebbero restare socialmente distribuite.

    Leggendo questa bella poesia di Giorgio Antonucci, il medico che è riuscito a liberare tante persone internate nei manicomi, ho subito pensato alle "note" che ho dovuto firmare sul diario scolastio di mia figlia: "la bambina ride in classe" "la bambina risponde all'insegnate"...

    La prima volta ho fatto il saluto
    e mi sono messo a ridere
    e mi hanno sbattuto in carcere

    La seconda volta ho fatto il saluto
    e mi sono messo a ridere
    e mi hanno sbattuto in manicomio

    Ora dopo tre anni di manicomio
    continuo
    a fare il saluto
    e a ridere

    Invece i sani di mente
    continuano
    a fare il saluto
    senza ridere
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    volo


    Mauro racconta: alla mia ennesima domanda preoccupata del fatto che mia figlia Valeria fosse davvero convinta a provare il volo in parapendio, lei mi disse: ”papa’ in fondo questo e’ solo il mio primo volo senza finestrino”

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    Tancredi, 4enne


    "Sono così stanco che mi dondola il cuore".

    =============================

    Rimproverato perché rutta a tavola, Tedy ribatte "rutto per far capire che mi è piaciuta la cucinata"
    - "Teddy, quello si fa in Turchia e noi non siamo in Turchia.
    - "Va bene, però è come se io fossi turchese.

    =============================

    Polemiche sulle celebrazioni di caduti:
    - nonna Mela: "i morti sono tutti uguali".
    - Tancredi (a parte): "non sono tutti uguali perché ognuno è rimanuto con la faccia sua".

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    Mamma



    "Dove ero prima di nascere?"

    "eri nella pancia della mamma, nella mia pancia"

    "e no!"

    "come << e no! >> ?"

    "tu non eri mamma prima che io nascessi!"

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    Società e paura


    Perchè, e come, costruiamo la nostra società gerarchica e la fondiamo sulla crudeltà e sulla morte?

    Come mai ci facciamo muovere dalla paura e dal ricatto e usiamo la benevolenza come maschera per ingannare il nostro competitore?
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    Convivialita e strumenti, alla Illic


    E’ conviviale la società in cui gli strumenti siano utilizzabili per realizzare le proprie intenzioni, e non riservati a specialisti che li tengono sotto il proprio controllo.

    La convivialià non si basa su regole da applicare meccanicamente ma sui divieti delle condizioni che la renderebbero impossibile perché limitano la libertà, la sopravvivenza, l’equità e l’autonomia creatrice delle persone.

    Lo strumento da servitore diventa despota quando supera una certa soglia che trasforma la società umana in scuola, ospedale, prigione.
    Mentre lo strumento razionale genera efficienza senza degradare l’autonomia personale propria o altrui.

    L’uomo ha bisogno di strumenti con cui lavorare, non che lavorino al suo posto.

    Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza.
    Se padroneggio lo strumento conferisco un significato al mondo, se invece ne sono dominato la sua struttura plasma la rappresentazione che ho di me stesso.

    Cosa fare per individuare i mezzi tramutati in fini?
    - riconoscere le conseguenze dello strumento senza lasciarsi incantare dalle sue intenzioni
    - smettere di misurare il benessere in denaro.
    - riconoscere cosa ci incatena e ci assuefà
    - reindirizzare la critica sociale dalla cattiva gestione (o corruzione, o ritardo tecnologico, o insufficiente ricerca) alla critica della struttura dello strumento che determina una crescente carenza generale

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    Esperti di troppo


    Gli esperti acquisiscono il potere legale di creare il bisogno che solo loro possono soddisfare, determinano il modo in cui devono essere fatte le cose e il motivo per il quale i loro servizi sono obbligatori.

    Il professionista detiene il potere per concessione di una élite della quale sostiene gli interessi.

    L’autorità professionale comprende tre ruoli:
    1) autorità sapienziale del consigliare, istruire e dirigere
    2) autorità morale che rende non solo utile ma obbligatorio quanto prescritto
    3) autorità carismatica che permette al professionista di appellarsi a qualche interesse superiore del suo cliente, che travalica la sua coscienza individuale e talvolta anche la ragion di stato
    Es: l’insegnante si è trasformato da tutor che sorveglia mentre si mandano a memoria la lezione, a educatore che si inserisce fra me e qualsiasi cosa io voglia studiare autorizzato a una crociata moralizzatrice.

    Differenza tra artigiani, professionisti liberali e nuovi tecnocrati: se non seguo il consiglio dell’artigiano sono uno sciocco, se non seguo quello del professionista sono un masochista, se tento di sfuggire al chirurgo o allo strizzacervelli che hanno deciso per me posso essere raggiunto dal braccio armato della legge.

    Il passaggio da professione liberale a professione dominante è un processo che ricorda la proclamazione di una religione di stato.
    Es. i medici da diagnostici ora indicano chi ‘deve’ essere curato -> le professioni stanno prendendo spazio alle responsabilità politiche (il professionista dominante mette a disposizione della giuria o del parlamento un’opinione globale che è sua e dei suoi colleghi iniziati anziché una prova fattuale circostanziata o una specifica abilità).

    Appunti da "professionisti di troppo" di Illich e altri
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    Amicizia e collusione


    C’è chi afferma che costruiamo il nostro mondo sociale in modo da ricevere giudizi positivi ed evitare giudizi negativi.


    - E’ così anche per te?
    - Temi anche tu di parlare francamente ad un tuo amico del suo comportamento?

    Dice che scegliamo come amici chi è meno dotato di noi nelle qualità centrali dell'immagine che abbiamo di noi stessi, mentre eccelle in qualità che consideriamo meno importanti.

    Dice anche che l’'inizio dell'amicizia consisterebbe in una negoziazione fra qualità più o meno centrali. In questo modo l'amicizia può essere il reciproco lodarsi sentendosi al contempo superiori.

    Nelle tue relazioni con gli amici, come distingui l’amicizia dalla collusione, dal reciproco confermarsi l’immagine a cui si desidera corrispondere?
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