Quanto siamo liberi?


E’ bello pensarsi liberi, finiamo per credere di esserlo.

Ma capitano alcune esperienze in cui ci accorgiamo con stupore, oltre che con orrore, di quanto siamo complici della nostra, e dell’altrui, prigionia.

Qui di seguito sono raccontati due momenti di stupore ed orrore in cui chi scrive si accorge di aver assunto automaticamente i presuposti dell’appartheid.*

"Un giorno, andando per la città, vidi una donna bianca che, seduta sulla cunetta di scolo accanto al marciapiede, succhiava delle lische di pesce. Era giovane e piuttosto attraente, ma evidentemente povera e senza casa. Naturalmente sapevo che esistevano bianchi poveri, bianchi la cui miseria non aveva niente da invidiare a quella dei neri, ma capitava raramente di vederli.
Ero abituato a vedere i mendicanti neri per le strade, e vederne uno bianco mi colpì. Mentre di solito ai mendicanti neri non facevo l’elemosina, provai l’impulso di dare a quella donna del denaro.
In quell’istante mi avvidi di quali scherzi giocava alla gente l’appartheid, rendendole insensibili ai travagli quotidiani dei neri, pur lasciandole capaci di commuoversi alla sofferenza dei bianchi. In Sudafrica, essere poveri e neri era normale, essere poveri e bianchi una tragedia." (pag 186).

"Facemmo tappa brevemente a Kartoum dove ci trasferimmo su un aereo delle linee etiopiche che ci avrebbe portati ad Adis. Lì feci una esperienza alquanto strana: mentre salivo a bordo mi accorsi che il pilota era un nero, e per un attimo fui preso dal panico. Come poteva un nero pilotare un aereo? Ma subito mi accorsi del tranello: anche io ricadevo negli schemi dell’appartheid, secondo i quali gli africani erano inferiori e pilotare un aereo era un mestiere da bianchi."(pag 282).

(*Autobiografia di Nelson Mandela, edizione economica Feltrinelli, 1997)